Violenza e fotografia
Perdonatemi ma questa newsletter non sarà come le altre. Non seguirò il consueto schema, ma andrò a ruota libera. E sarà, probabilmente, un po’ pesante come argomento.
La prenderò un po’ alla lontana ma alla fine la fotografia centra.
Lo scorso 25 aprile è stata la “giornata mondiale per l’eliminazione contro la violenza delle donne”. Un argomento che, solo con questa definizione, ci fa capire la gravità del problema. In Italia è stata spesso presentata come “La giornata per l’eliminazione del femminicidio”. Una definizione sbagliata e limitata. Perché limita il problema ad una prospettiva estrema e ristretta. Non che il femminicidio non sia deprecabile, ovvio, ma perché rappresenta una minima parte del problema.
Inoltre, messa sotto questa prospettiva, offre il fianco a molte critiche che spostano l’attenzione dal vero problema. Ho sentito dire che il femminicidio non è altro che un omicidio solo con un altro nome. Come se l’omicidio di una donna fosse meno grave di un omicidio di un uomo.
Un omicidio è un omicidio, su questo non si discute. Ma per femminicidio si intende una piccola parte del problema rappresentato dalla violenza sulle donne in generale. Per femminicidio non si intende una donna che viene uccisa. Si intende un ultimo atto estremo in cui tutti noi siamo colpevoli.
TUTTI NOI.
Secondo le statistiche ISTAT il 31,5% delle donne ha subito violenza fisica o sessuale. Il che vuol dire che se siamo in una stanza con 10 donne 3 di loro sono state vittime di violenza. Certo sono statistiche, con numeri così piccoli ci può stare che il numero di donne nella stanza che ha subito violenza possa essere uguale a zero. Ma se stiamo in una piazza, in un concerto, in un teatro, guardiamoci intorno. Guardiamo le donne che ci sono. Se vediamo 300 persone di cui 150 donne diventa plausibile che il 31,5% di loro abbiano subito violenza sessuale o fisica. Sono 47. Se andiamo ad un concerto allo Stadio con 30.000 persone di cui la metà donne, le donne vittima potrebbero essere 4725. Magari una di loro è davanti a noi. Magari è la nostra compagna e non lo sappiamo.
Con numeri così alti si capisce che il problema siamo noi. Noi tutti. In un modo o nell’altro. Anche le donne non sono escluse dall’assumersi le colpe.
Se davanti ad una violenza sessuale qualcuno (o anche qualcuna) dice “Se l’è cercata” e lo dice con disinvoltura tra amici e familiari è perché è sicuro (o sicura) che nessuno gli dica: “Ma cosa cazzo stai dicendo”. Anzi se lo dice una donna la frase sembra avere più autorevolezza. Se davanti ad un femminicidio la prima cosa che si pensa è che “comunque le donne sanno essere esasperanti” è perché la società lo induce a pensare. Certo che le donne sanno essere esasperanti, ma anche gli uomini possono essere stronzi. Questo non vuol dire che l’omicidio sia una soluzione accettabile.
Viviamo in una società in cui la donna, quando non viene sminuita, viene vista come portatrice di problemi.
Vogliamo parlare della gravidanza sul lavoro? La gravidanza è vista come un problema. Quando qualcuno si appella ai valori della famiglia e li erge a baluardo della difesa dell’umanità, si defila quando le gravidanze sul lavoro penalizzano le donne.
Ho sentito un marito, padre di una bambina nata prematura, lamentarsi che la moglie lo voleva presente alle visite mediche della neonata. “Alle prime va bene, ma poi deve imparare ad andarci da sola”. Quando ho detto che una soluzione sarebbe potuta essere che anche lui imparasse a portare la figlia alle visite per dividere il carico di emotivo e di responsabilità, la risposta è stata “No, è una cosa che deve fare lei” DEVE?
Risulta palese che il “deve” è una parola tramandata in casa, in famiglia, nella cerchia sociale.
Confrontiamo quante donne in Italia prendono il congedo parentale e quanti uomini. Il paragone è impietoso. Ovvio che un diritto usato dalle donne e non usato dagli uomini diventa un problema sul posto di lavoro. La soluzione esiste, ma nessuno si preoccupa di applicarla perché non viene percepita come un urgenza. Anzi, la frase “questa gravidanza non ci voleva” detta da un datore di lavoro è diventata una cosa normale.
La Svezia ha una soluzione molto efficace. Il figlio è della famiglia e non della donna. Ogni genitore ha l’obbligo di prendere due mesi di congedo parentale. Questo mette l’uomo sullo stesso piano della donna nel mondo del lavoro.
Consiglio l’ascolto di un bel podcast che si chiama “Cara sei maschilista” parla del maschilismo invisibile. Il maschilismo di quelle cose che ci sembrano normali.
… e arriviamo alla fotografia…
Mi è capitato di vedere sopratutto sui social, una serie di progetti a tema “violenza sulle donne”. Progetti più o meno riusciti, più o meno professionali. Spesso molto simili tra loro: foto che simulano l’atto della violenza, dettagli stretti su pugni stretti e lacrime che scendono. Per carità meglio un progetto del genere in più che in meno. Però secondo me non centrano il problema. In queste foto la violenza viene ricostruita, quindi cercata. Quando in realtà non va cercata.
Prendiamo una foto iconica. Quella di Sharbat Gula. La famosissima foto di Steve McCurry. La trovo importante perché è diventata una foto che rappresenta la violenza sulle donne suo malgrado e nel tempo.
Quella che vedete sopra è la prima foto scattata nel 1984 quando aveva 12 anni. Era una profuga afgana e la foto voleva rappresentare le donne afgane che vivevano un terribile momento storico. In realtà è diventata “la ragazza afgana del National Geographic.
Nel 2002 sempre McCurry l’ha cercata e fotografata ancora.
Poi nel 2021 a novembre, pochi giorni fa è arrivata in Italia assieme a tanti profughi afgani.
Una cosa che ha detto è: “Non ho trascorso un solo giorno della mia vita, a parte forse quello del mio matrimonio, in cui mi sia sentita felice e al sicuro“.
Questa frase non va associata a lei in quanto afgana o profuga, ma in quanto donna. Guardiamoci intorno e cerchiamo quel 31.5%. Ognuna di loro può dire di non sentirsi al sicuro.